Nella Francia degli anni Cinquanta, nonostante l’industria nazionale non navigasse in buone acque, erano moltissimi gli appassionati di cinema che affollavano le sale cinematografiche, ma anche cineclub e cinema d’essai. Erano le nuove generazioni, quelle che non avevano vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra, che avevano potuto studiare e per le quali il cinema non poteva continuare a rappresentare un semplice intrattenimento o uno svago domenicale. Questo nuovo e giovane pubblico cercava un cinema che lo facesse anche riflettere e pensare, assuefatto dal consumo dei film di Hollywood che invadevano le sale, avvertiva il bisogno di una rottura con gli schemi classici.
Tra le molte riviste di critica cinematografica che questo pubblico divorava, la più celebre divenne quella fondata nel 1951 da André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze, Joseph-Marie Lo Duca e Léonide Keigel: Les Cahiers du Cinéma, prima rivista della cinefilia moderna. Intorno a questa testata si raccolsero molti giovani critici e fanatici cinefili come Eric Rohmer, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, François Truffaut i quali avrebbero presto esordito alla regia dando vita a quel movimento che prenderà il nome di nouvelle vague.
Nel 1953 il Centre National du Cinéma aveva introdotto un premio di qualità che permetteva a nuovi registi di realizzare cortometraggi; una legge del 1959 lo rilanciò con il sistema della “avance sur recettes” (anticipo sulle ricevute), che finanziava le opere prime sulla base delle sceneggiature. Così fra il 1958 e il 1961 poterono esordire nel lungometraggio dozzine di nuovi registi tra i quali anche i giovani e battaglieri critici dei Cahiers du Cinema.
Dalle pagine dei Cahiers, Truffaut ed i suoi colleghi, si erano fatti difensori e promotori della così detta politica degli autori: essi sostenevano che il regista è il solo autore del film e l’unico responsabile della sua riuscita. Nei loro articoli smisero di interessarsi al singolo film, ritenuto una tappa all’interno di un più vasto percorso artistico, e alla sua trama per concentrarsi sul regista, su quegli elementi, rintracciabili in ogni sua opera, che ne rivelavano la poetica e lo stile personali. La critica virava dal “cosa” il film racconta al “come” lo racconta. Questo dibattito che infiammerà le pagine dei Cahiers, fu inaugurato da un articolo di François Truffaut: Ali Babà e la politica degli autori. Truffaut scelse di proposito un film ritenuto minore, Ali Babà et les Quarantes voleurs (1954) di Jaques Becker, proprio per dimostrare che lo stile di un regista va considerato al di là del singolo film: “Non ci sono opere, ci sono solo autori”, afferma Truffaut citando Giraudoux.
Alì Babà e la politica degli autori
Gli autori più cari ai critici dei Cahiers, furono Jean Renoir, Orson Welles, Rosselini e gli altri neorealisti, ma attraverso la politica degli autori essi seppero rivalutare anche figure di registi ritenuti di genere come John Ford o Alfred Hitchcock. Quando passarono dalla macchina per scrivere alla cinepresa questi esordienti registi possedevano forse meno nozioni tecniche rispetto a molti altri loro predecessori, ma sicuramente un’idea chiara di ciò che con il cinema intendevano esprimere.
L’epifania della nouvelle vague avvenne con quattro film usciti fra il 1958 e il 1960. Dapprima i cortometraggi di Le Beau serge (1958) e I cugini (1959) di Claude Chabrol che esploravano la disparità fra la vita rurale e quella urbana nella nuova Francia. Poi con I quattrocento colpi (1959) di François Truffaut, che vinse al Festival di Cannes il Premio per la Miglior Regia.
Infine con Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard, il film più innovativo tra questi primi quattro, che vinse a Berlino l’Orso d’Argento per il Miglior Regista, la nouvelle vague si imponeva all’attenzione del mondo.
Il successo esplosivo di questi film fu in gran parte determinato dal fatto che si rivolgevano ad un pubblico giovane, quello stesso pubblico che in Francia assediava i cinema ed i cineclub. Godard, Truffaut & Co. riportavano sullo schermo le mode, gli atteggiamenti, i luoghi frequentati dalla loro generazione. Protagonisti diventano per lo più dei trentenni che rifuggono dai grandi ideali e dagli impegni romantici, impegnati come sono a prendersi gioco di tutto ciò che rappresenta il passato e le vecchie generazioni come l’autorità, la famiglia, un tranquillo posto di lavoro. I loro film si popolano di locali jazz e caffè notturni, escono tra le strade cittadine per rientrare molto spesso in un cinema.
Una costante di questi autori fu, infatti, anche il continuo riferirsi ad altri film e personaggi della storia del cinema, dell’attualità come del passato: in Fino all’ultimo respiro il protagonista imita Humphrey Bogart, ad una festa in Paris nous appartient (1961) di Jacques Rivette si proietta Metropolis, mentre ne I quattrocento colpi il ragazzo ruba una foto di scena di Monica e il desiderio (1953) di Bergman, oppure in Questa è la mia vita (1962), la protagonista Nanà assiste alla proiezione della Passione di Giovanna D’Arco.
Le citazioni erano spesso incrociate, in una sorta di celebrazione della reciproca notorietà. Il loro gioco metalinguistico non si esaurisce al cinema: il protagonista de I quattrocento colpi, ad esempio, copia un tema da Balzac.
La volontà di rottura con il passato che si manifesta nelle scelte poetiche di questi autori, diventa evidente nello stile. Dal neorealismo, di cui per primi si scorsero della portata rivoluzionaria, essi derivano l’uso di sceneggiature aperte: i registi della nouvelle vague si serviranno delle sceneggiature, da essi stessi redatte, come di semplici canovacci, non più sceneggiature di ferro dunque, dove ogni cosa è programmata in anticipo, ma testi aperti pronti ad essere contaminati da tutto ciò che accade fuori, dentro e intorno al set, che lasciano spazio all’improvvisazione dell’attore e dello stesso regista. Come i neorealisti abbandonano gli studi per girare in esterni o in interni non ricostruiti, facilitati in questo delle tecnologie sempre più pratiche e leggere come le cineprese a 16mm. Il loro è dunque un cinema diretto, spontaneo, immediato, ben lontano da quello sfornato dagli studi di Hollywood.
Un altro concetto chiave per comprendere questo stile è quello di camèra-stylo, proposto da Alexandre Astruc in un articolo del ’48. Astruc sosteneva che il cinema disponeva ormai di un linguaggio completo e strutturato tanto da poter riproporre sullo schermo qualsiasi forma letteraria, dal saggio al trattato di psicologia. I nuovi formati leggeri come il 16mm, la nascita della televisione, favorivano la possibilità di un cinema sempre più diretto capace di catturare la realtà nella sua immediatezza. Usare la cinepresa con la stessa facilità di una penna per scrivere è ciò che i registi della nouvelle vague inizieranno a fare.
Nonostante i loro film siano spesso ispirati al cinema qualità e ai noir americani, essi rimettono in discussione proprio i canoni del linguaggio classico. Pilastro del linguaggio hollywoodiano classico era l’invisibilità del mezzo cinematografico, i registi della nouvelle vague agiscono spesso proprio per rivelarne la presenta. In Fino all’ultimo respiro, ad esempio, il personaggio interpretato da Jean-Paul Belmondo, durante la una corsa in automobile rivolge direttamente all’operatore il suo monologo. In questa è la mia vita Godard evita costantemente di riprendere le scene di dialogo secondo la tradizionale dialettica di campo controcampo. In una scena di dialogo sceglie ad esempio di muovere manualmente la cinepresa da un personaggio all’altro, quasi volendo sottolineare il gesto dell’operatore. È in queste trasgressioni linguistiche che il regista può manifestare il suo stile personale.
Ad imitazione di quella francese, nascevano altre nuove ondate in altre parti del mondo dal Brasile alla Cecoslovacchia. Molte delle opere del genere produssero guadagni notevoli e portarono alla fama attori come Jean-Paul Belmondo, Jean-Claude Brialy, Anna Karina, Jeanne Moreau e molti altri che avrebbero dominato per decenni il cinema francese, e si rivelarono ben più facilmente esportabili di quando si supponesse.
Per molti produttori, che non navigavano in buone acque, questi film rappresentarono un’occasione di guadagno. Il loro intervento determinò quell’inflazione del genere che ne causò la fine. Dapprima brillanti ed irriverenti ben presto questi film si trasformarono in opere sciatte e sempre meno curate. Del resto un movimento che aveva come suo principale scopo la rottura con il passato non poteva durare a lungo oltre la contingenza del momento storico. Pian piano i suoi maggiori autori cominciarono a percorrere strade diverse ciascuno seguendo la propria aspirazione e personale ispirazione. L’esperienza della nouvelle vague si esaurì in una manciata di anni non senza, però, aver gettato i semi da cui nacque il cinema moderno, un cinema dotato ormai di un linguaggio completo e strutturato, dove il regista può spaziare raccogliere, rielaborare, violare quelle che sono ormai regole e convenzioni stabilite, alla ricerca di un linguaggio proprio e personale, autoriale. Il cinema moderno è un cinema che ha coscienza di sé, che si mostra, che non cela l’artificio della sua natura, un cinema dove realtà e finzione si permeano l’un l’altro, dando vita a nuovi codici e mezzi espressivi.
Riferimenti bibliografici e sitografia
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