Il cinema non fu mai davvero muto. Fin dalle origini la musica fu parte integrante dello spettacolo cinematografico. Anche i documentari dei Lumière venivano proiettati con accompagnamenti musicali. Probabilmente la musica entrò nei cinematografi per rispondere all’esigenza pratica di coprire i rumori prodotti dal pubblico in sala e quelli provenienti dal proiettore in funzione, ma fin da subito furono chiare le sue potenzialità espressive nell’ambito della settima arte. Diversi registi del cinema delle origini avevano cercato un metodo per sincronizzare suono ed immagini, come Méliès o Dickson, oppure la casa di produzione Gaumont che nacque proprio con l’intento di distribuire materiale fonografico per il cinema e che con Alice Guy realizzò, fin dal 1902, diversi filmati sincronizzati a delle registrazioni sonore. Leon Gaumont chiamò questi filmati phonoscène.
Un successivo e più preciso sistema di sincronizzazione fu quello messo a punto da Georges Mendel che agli inizi del secolo inventò il phono-cinéthéâtre, un sistema che permetteva, relativamente all’epoca, un’ottima sincronizzazione tra il cinematografo ed il grammofono. Il suo filmato più conosciuto è senz’altro La Marsigliese.
Questi tentativi però, realizzati registrando su disco la musica che avrebbe dovuto accompagnare il film, non ebbero fortuna: colonna visiva e colonna sonora venivano registrati e riprodotti su supporti diversi, e ciò causava facilmente la perdita di sincronismo, inoltre i sistemi di amplificazione delle sale cinematografiche risultavano inadeguati.
I musicisti di sala predisponevano un proprio repertorio, composto da brani preesistenti o originali, dal quale attingevano scegliendo il motivo più adatto alle scene che scorrevano sullo schermo. Essi facevano, il più delle volte, ricorso alla tecnica wagneriana del leitmotiv: un brano associato ad un personaggio, un’azione, un oggetto… e che veniva riproposto ogni qual volta questo si presentava sulla scena. In tal modo la musica, oltre a coinvolgerlo emozionalmente, aiutava lo spettatore nella comprensione del film.
La musica dal vivo era allora l’unica strada percorribile. Gli esercenti, secondo le loro disponibilità economiche, assumevano musicisti: un singolo pianista o anche un’intera orchestra, se il cinema era abbastanza capiente e l’occasione importante. In alcuni casi si poteva perfino ricorrere a dei rumoristi, personaggi che, seguendo la proiezione da dietro lo schermo, riproducevano suoni e rumori adatti con oggetti e strumenti a loro disposizione.

Proiezione al Royal Polytechnic del film The Siege of Dheli, con l’équipe dei rumoristi dietro lo schermo. Acquaforte tratta da libro The Boy’s Playbook of Science di John Henry Pepper (1860)
L’accompagnamento musicale era dunque in gran parte affidato al gusto e alle capacità performative dei musicisti di sala, ma con l’avvento dei film di lungometraggio, caratterizzati da un più complesso impianto narrativo, si avvertì maggiormente l’esigenza di collegare in maniera più solida immagini e suoni. Sul modello inaugurato da L’Assassinat du Duc de Guise, si cominciò a far ricorso a compositori che scrivessero musica appositamente pensata per il film, si diffuse inoltre la pratica di distribuire unitamente alle pellicole le partiture delle musiche da eseguirsi in sala.
Nel 1923, a New York, l’inventore Lee De Forest presentava in una proiezione pubblica i suoi cortometraggi sonori. Sfruttando i brevetti di un altro inventore, Theodore Case, De Forest era riuscito a registrare, sotto forma di impulsi luminosi, la colonna sonora, che poteva così essere posizionata sulla pellicola stessa. Il Phonofilm di De Forest non ebbe però successo sul mercato, anche per via del sistema Movietone, sviluppato in concorrenza da Case e che venne adottato dalla Fox. Nel frattempo, la Warner Bros., società in forte espansione, aveva adottato il sistema di registrazione su disco, realizzato dalla Western Elettric, chiamato Vitaphone che restituiva un sincronismo accettabile.
Dopo una serie di cortometraggi sperimentali, reportage, riprese di spettacoli dal vivo, la Warner Bros. produsse il primo lungometraggio sonoro: Don Giovanni e Lucrezia Borgia (Don Joan), diretto da Alan Crosland, che raggiunse le sale nell’agosto del 1926. Prodotto sul modello dei film d’arte italiani e francesi, il film presentava una colonna sonora composta da sola musica, si presentava dunque proprio come un film muto accompagnato da musica con la differenza che questa non era più eseguita dal vivo. Lo stesso accadeva per il film Aurora, distribuito dalla Fox, e realizzato con il sistema del Movietone. Convinta dal successo di Don Joan, la Warner mise in produzione Il cantante di jazz (The Jazz Singer), sempre di Alan Crosland, il primo film “parlato”, che uscì nelle sale il 5 ottobre del 1927, data che segna convenzionalmente l’ingresso del sonoro nel cinema.
Il cantante di jazz era, però, un film perlopiù muto, accompagnato da didascalie, mentre le scene dialogate si riducevano ad una manciata di minuti. Il successo del film fu comunque fondamentale per il definitivo passaggio al sonoro. Già l’anno seguente la Warner produceva Lights of New York di Brian Foy, primo film interamente parlato. Intanto le maggiori case di produzione americane avevano siglato un accordo con il quale si impegnavano a cercare insieme e ad adottare un unico sistema per la registrazione e riproduzione del sonoro. La scelta cadde infine sulla pratica ed economica pellicola sonora messa in commercio dalla Western Elettric, la stessa che aveva creato il Vitaphone.
L’avvento del sonoro comportò in primo luogo una serie di problemi tecnici con i quali i registi dovettero confrontarsi: non esistevano microfoni direzionali, né leggeri e pratici supporti su cui collocarli, non vi era neanche la possibilità di effettuare il missaggio, cioè di poter unire diverse tracce audio registrate separatamente in un’unica traccia. Le macchine da presa dovevano essere chiuse in pesanti cabine insonorizzate, affinché il rumore da esse prodotto non venisse registrato nel film, ciò limitava grandemente la possibilità di movimento e bisognava ricorrere alla tecnica delle cineprese multiple, ovvero la stessa scena veniva registrata per intero da punti di vista diversi da tre o più macchine da presa.
Gli attori erano costretti a muoversi a passi felpati, a recitare scandendo chiaramente e lentamente ogni sillaba. Non mancarono però registi che seppero far fronte creativamente a questi inconvenienti. Nel musical in costume Il principe consorte (1929), Ernest Lubitch riuscì ad evitare il ricorso continuo alla cinepresa multipla facendo in modo che le battute dei personaggi non finissero mai a cavallo dello stacco, ma si concludessero sempre nella stessa inquadratura.
Alleluja! (1929), di King Vidor, un musical interpretato solo da afroamericani, fu girato per gran parte come un film muto, mentre il suono venne aggiunto in postproduzione, ciò consentì a Vidor un’ampia libertà di movimento.
Nel primo film di Rouben Mamoulian, Applause (1929), sono invece presenti alcuni inaspettati movimenti di macchina e complessi piani sequenza, sintomatici di come l’introduzione del sonoro stesse influenzando le tecniche di montaggio. Per il regista non era più possibile tagliare le scene a proprio piacimento, il montaggio doveva ora tener conto anche degli elementi della colonna sonora. Un’altra conseguenza dell’avvento del sonoro fu la riscoperta del fuori-campo. In una sua recensione al film di Harry Beaumont, La canzone di Broadway (1929), Renè Clair scriveva:
“Per esempio, si sente il rumore di una portiera che sbatte e un’auto che si allontana, mentre a noi si mostra il volto angosciato di Bessie Love che sta osservando dalla finestra quella partenza che non vediamo. Questa breve scena , dove tutto si concentra sul viso dell’attrice, e che il cinema muto avrebbe scomposto in più inquadrature, deve la sua forza a quell’unità di luogo realizzata con il sonoro.” (1)Renè Clair, Cinéma d’hier, cinéma d’aujourd’hui , Paris 1970.
Nei primi film sonori prodotti gli attori si muovono in maniera cauta e alquanto ingessata, ciò era dovuto alle innumerevoli difficoltà tecniche che i registi incontravano sul set. Ma mano che questi acquistavano dimestichezza con i nuovi mezzi e le nuove tecniche, gli attori poterono cominciare a recitare in maniera più sciolta. Il sonoro mutò profondamente l’arte della recitazione cinematografica. Nel cinema muto l’attore agiva in maniera teatrale, privo di voce, egli doveva contare su una gestualità molto marcata. Restituendogli la parola, il sonoro esigeva ora una recitazione sempre più naturale e realistica.
A trarre giovamento dall’avvento del sonoro, oltre al musical, fu il cinema di animazione. Nel 1928 usciva nelle sale Dinner Time, prodotto dalla Van Beuren Studios, primo cartone animato interamente sonorizzato. L’esperimento fu prontamente imitato da Walt Disney con Steamboat Willie, film che segnò il debutto sugli schermi del celebre personaggio di Topolino, ed ottenne uno straordinario successo.
Fin da questo primo esperimento possiamo vedere come la Walt Disney utilizzi una particolare tecnica di composizione musicale ottenuta sincronizzando le azioni sullo schermo con gli effetti sonori e una musica di accompagnamento ricca di suoni onomatopeici, che seguono punto per punto l’azione visibile sullo schermo. Questa tecnica è oggi nota come Mickey Mousing proprio dal personaggio che la rese celebre. Il cinema di animazione si rivelò uno straordinario campo di sperimentazione degli effetti sonori, elementi sulle prime trascurati degli altri generi cinematografici.
Per quanto riguarda la musica, se da una parte questa subiva una riduzione per lasciar spazio ai dialoghi e ai rumori, dall’altra si vedeva rafforzare il suo ruolo, musica ed immagini divenivano parti indissolubili dell’opera audiovisiva. Di certo i registi e compositori non ebbero difficoltà nel confrontarsi con la musica da film, essendo le sue potenzialità espressive già esplorate negli anni del muto, il sonoro introdusse però una novità: la possibilità di usare la musica non solo in maniera extradiegetica ( esterna alla narrazione ), ma anche in maniera diegetica ( interna alla narrazione). Nel cinema hollywoodiano classico, ad esclusione del musical, si continuerà con molta più frequenza ad utilizzare la prima tipologia nelle modalità già collaudate nel cinema muto. Bisognerà giungere fino al cinema moderno per trovare generi e registi che prediligano l’uso di musica diegetica o che arrivino ad escludere del tutto quella extradiegetica come nel caso del cinema Dogma 95 degli anni Novanta.
In Europa la rivoluzione sonora cominciò dalla Germania dove erano stati messi a punto brevetti in grado di competere con quelli americani. Tedesco fu il primo film sonorizzato prodotto nel vecchio continente: Il bacillo dell’amore (1929) di Robert Lang, interpretato da una giovane Marlene Dietrich che avrebbe raggiunto una fama internazionale con il successivo L’angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg. Ad ogni modo gli standard d’oltreoceano finirono per avere la meglio sui sistemi tedeschi. Il primo film parlato a riscuotere un grandioso successo fu invece Ricatto (1929) dell’inglese Alfred Hitchcock. Il film fu inizialmente girato come un film muto di cui solo la prima bobina doveva essere sonorizzata, ma per volontà del regista il film venne interamente sonorizzato in post produzione. Sempre di produzione tedesca è il film Melodie der Welt (1929) di Walter Ruttmann, un film particolarmente interessante in quanto mescola in maniera innovativa musica e suoni d’ambiente.
In Russia il sonoro si diffuse con più lentezza rispetto agli altri paesi europei, ma è qui che maturarono alcuni dei più interessanti contribuiti teorici. Nel 1928 Sergej Ėjzenštejn, Grigorij Aleksandrov e Vsevolod Pudovkin firmavano la loro dichiarazione sul futuro del sonoro:
“(…) Soltanto l’impiego contrappuntistico del suono rispetto all’immagine offre possibilità di nuove e più perfette forme di montaggio. Pertanto le prime esperienze di fonofilm debbono essere dirette verso una non coincidenza tra immagine visiva e immagine sonora: questo sistema porterà alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale. (…) Il suono, inteso nella sua vera funzione, cioè di nuovo elemento di montaggio indipendente dall’immagine visiva, introdurrà invece un mezzo estremamente efficace per esprimere e risolvere i complessi problemi contro i quali urtava la realizzazione, per l’impossibilità di trovare loro una risoluzione mediante i soli mezzi visivi. ” (2)G.V. Aleksandrov, S.M. Ejzenštejn, V.I. Pudovkin, Buduščee zvukovoj fil′my. Zajavka, in Zizn′ iskusstva, 1928, 32 (trad. it. Il futuro del sonoro. Dichiarazione, in S.M. Ejzenštejn, La forma cinematografica, Torino 1986).
Ciò che Ėjzenštejn intendeva dire è che la colonna sonora non doveva limitarsi ad enfatizzare il contenuto delle immagini, ma doveva opporsi a questo introducendo elementi nuovi non espressi visivamente. Semplificando possiamo dire che in una scena dal contenuto drammatico, Ėjzenštejn non avrebbe aggiunto una musica drammatica, ma piuttosto un brano allegro che, per contrasto, avrebbe messo in risalto la drammaticità dell’azione. Queste teorie non divergono da quella già espressa del montaggio delle attrazioni, e anzi ne sembrano il naturale sviluppo. Per avere un’idea dell’influenza delle teorie eisestenianie sulla storia del cinema basterebbe citare una scena di Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick, quella in cui i Marine dopo un violento scontro marciano sul campo di battaglia fischiettando la Marcia di Topolino, una canzone per bambini, simbolo di quell’imperialismo culturale ed economico degli Stati Uniti che era all’origine del loro coinvolgimento nel conflitto. Così Kubrick, mettendo in pratica le teorie di Ėjzenštejn, riesce ad esprimere attraverso questa combinazione di suono ed immagini concetti che vanno ben oltre la semplice rappresentazione realtà. Nella prima metà degli anni trenta la transizione al sonoro poteva dirsi completamente conclusa. Il solo Chaplin riuscì ancora per qualche anno a produrre film muti.
Riferimenti bibliografici e sitografia
D.Bordwell, K.Thompson, L’introduzione del sonoro, in Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945, Editrice Il Castoro, Milano 1998.
Ennio Simeon, Per un pugno di note, Rugginenti Editore, Milano 1995.
Lucilla Albano, La rivoluzione del sonoro, in, Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema, Marsilio, Venezia 1999.
G. Rondolino; D.Tomasi, Il suono, l’immagine, in Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, UTET, Torino 1999.
G.V. Aleksandrov, S.M. Ejzenštejn, V.I. Pudovkin, Buduščee zvukovoj fil′my. Zajavka, in Zizn′ iskusstva, 1928, 32 (trad. it. Il futuro del sonoro. Dichiarazione, in
S.M. Ejzenštejn, La forma cinematografica , Torino 1986).
Il montaggio nel cinema sonoro, in S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 1985.
Il montaggio verticale, in S.M. Ejzenštejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986.
Renè Clair, Cinéma d’hier, cinéma d’aujourd’hui , Paris 1970.
Sound film, in www.en.wikipedia.org
Alberto Boschi, Muto e sonoro, in www.treccani.it
Sergio Miceli, Musica. Il rapporto tra musica e cinema, in www.treccani.it
La Hollywood di questi anni, alle prese con la rivoluzione del sonoro, è racontata magistralmente dal film The Artist di Michel Hazanavicius, vincitore di cinque premi Oscar, tra cui Miglior Film Straniero, nel 2012.