05.2 Hollywood ed il cinema classico

La Grande Crisi del ’29, aveva messo in ginocchio l’economia americana, ma ora il paese è pronto a ripartire sulla spinta del New Deal. Ingenti capitali tornano ad essere investiti nell’industria cinematografica concentratasi ad Hollywood. Per la perfezione stilistica raggiunta, il cinema qui prodotto in questi anni verrà definito classico, divenendo il modello con il quale, in un modo o nell’altro, dovranno confrontarsi i registi delle generazioni future.

In questi anni l’industria americana è dominata dalle cinque mayors: Paramount, MGM, 20th Century-Fox, Warner Bros, RKO, che hanno strutture a concentrazione verticale e gestiscono grandi catene di sale, e le tre minors: Universal, Columbia, United Artists, che gestiscono pochissime sale o non ne posseggono affatto.

Gli studios della Warner Bros a Burbank in California nei primi anni Trenta

Sono proprio le mayors che avendo la necessità di rifornire costantemente di film le loro sale si impongono ritmi e metodi di produzione industriale. Il lavoro viene rigidamente suddiviso tra professionisti sempre più specializzati, ciascuno dei quali interviene in una precisa fase di lavorazione del film. Le varie case vanno dotandosi di studi sempre più attrezzati, teatri di posa, grandi atelier, laboratori scenografici. Si afferma così lo studio system quel sistema di produzione e distribuzione filmica che caratterizzerà l’industria americana per lungo tempo ed in particolare tra gli anni ’30 e ’40. Più che all’apporto di singoli autori, lo sviluppo e l’affermazione del cinema classico sono dovute a queste nuove modalità produttive.

Locandina del film Casablanca (1942) di Micheal Curtiz con Humphry Bogart e Ingrid Bergman

L’esigenza delle mayors di pianificare e serializzare la produzione ed organizzarla in un palinsesto che ne facilitasse la distribuzione e la fruizione nelle sale, accelera e favorisce lo sviluppo del sistema dei generi. L’origine dei generi cinematografici va ricercata all’origine del cinema stesso. Durante tutto il periodo del muto vi erano case specializzate nella produzione di una particolare tipologia di film. Ora, però, il sistema dei generi trova una sua perfetta integrazione in tutti i livelli dell’industria filmica: dalla produzione all’esercizio. La sua importanza è tale da divenire essenziale nello sviluppo linguistico del nuovo cinema. I generi più importanti di questo periodo sono il noir, il western, la commedia, l’horror, i film di guerra, i gangsters films e soprattutto il musical che con l’introduzione del sonoro diventa un genere di primaria importanza.

Locandina per il musical Cappello a cilindro (1935) diretto da Mark Sandrich, con Fred Astaire e Ginger Rogers.

Anche la promozione e lo sfruttamento del divismo cinematografico, star system,  non sono certo un’invenzione degli anni Trenta, ma è in questi anni che diventano meccanismi fondamentali del sistema di produzione e distribuzione dei film. Ogni grande casa di produzione possiede la sua scuderia di divi che lega a sé con contratti esclusivi e a lungo termine. La produzione non solo costruisce l’immagine del divo sullo schermo ma, in collaborazione sinergica con gli altri media, ne gestisce anche l’immagine pubblica. Benché osannati dal pubblico, i grandi divi erano una vera e propria proprietà degli studios, una condizione spesso alienante magistralmente raccontata da Billy Wilder in Viale del tramonto (1950).

Gloria Swanson nella scena finale del film Viale del Tramonto di Billy Wilder (1950)

Importanti passi in avanti vengono fatti anche in campo tecnologico. L’introduzione di agili apparecchiature come dolly e gru, oltre che di mixer e microfoni direzionali, fece sì che i film sonori riacquistassero presto il dinamismo dei film dell’ultima stagione del muto. In questi anni viene inoltre introdotto il Technicolor che consentiva di girare film a colori. Oggi tendiamo a considerare il colore come un elemento di forte realismo, ma negli anni Trenta l’uso del colore era invece legato al cinema di genere fantastico e meraviglioso.

Alcune scene dal film di animazione Biancaneve (1937), primo lungometraggio di animazione a colori

Il primo lungometraggio interamente a colori fu, infatti, un film d’animazione: Biancaneve e i sette nani (1937), prodotto dalla Walt Disney, e che fu anche il primo lungometraggio d’animazione realizzato negli Stati Uniti. Seguirono altri film d’animazione come I viaggi di Gulliver (1939) | ►| della Fleischer Studios o il fiabesco musical Il Mago di Oz (1939) di Victor Fleming. In questo film il regista sceglie di girare in bianco e nero le scene ambientate nel mondo nel reale, mentre ricorre al colore per quelle ambientate nel meraviglioso mondo di Oz.

Un’immagine a colori dal film Il Mago di Oz (1939) di Victor Fleming

Si diffonde l’uso di effetti speciali, non impiegati tanto per ottenere effetti spettacolari, come poteva accadere in un film come Il Mago di Oz, ma soprattutto per realizzare, in maniera più pratica ed economica, scene che, se girate convenzionalmente, avrebbero richiesto un grande dispendio di energie, è il caso della tecnica della retroproiezione frequentemente impiegato per scene ambientate in automobile: i protagonisti restano seduti in un’auto ferma sul set mentre su uno schermo alle loro spalle scorrono immagini di paesaggi in movimento filmate precedentemente. Lo stesso avveniva in molte scene di Ombre Rosse (1939) nella rocambolesca sequenza dell’assalto alla diligenza, ad esempio.

Un’immagine dal film Ombre Rosse (1939), realizzata con la tecnica della retroproiezione

Nel 1935 venne ristrutturato , il codice interno di censura preventiva cinematografica, noto come codice Hays dal nome del politico che lo ideò. Il codice Hays era già in vigore negli anni Venti, l’avvento del sonoro spinse i suoi autori a ristrutturarlo e ad imporne il rispetto con maggiore fermezza. Il codice Hays consisteva in una serie di divieti che i produttori avrebbero dovuto rispettare per mettersi al riparo da un’eventuale censura che avrebbe potuto causare gravose perdite finanziare. Il codice prevedeva, ad esempio, che i coniugi di una coppia, anche regolarmente sposata, dormissero in camere separate, che un bacio non dovesse durare più di dieci secondi, vietava di rappresentare la perversione sessuale, intesa principalmente come omosessualità, e ne vietava qualsiasi allusione o riferimento. Vigeva il divieto di offendere altre razze, etnie e fedi religiose. Queste e altri divieti imposti dal codice Hays, non traevano origine tanto da un’esigenza di ordine etico o morale, quanto piuttosto da questioni di ordine economico e finanziario.

Scena del film Accadde una notte (1934) di Frank Capra.

Tra le vittime più celebri del codice Hays troviamo anche una star del cinema d’animazione come Betty Boop. Questo personaggio fece la sua prima comparsa sugli schermi nel 1930, nel cortometraggio dei fratelli Fleisher, Dizzy Dishes. Betty irruppe nel tranquillo panorama dell’animazione per bambini con un inedito fascino erotico.

Evocando gli spensierati anni del jazz, divenne un’icona nel periodo della Grande Depressione, ma Il codice Hays le impose dapprima di accompagnarsi ad altri personaggi che stemperassero la sua carica erotica. Quindi fu costretta ad occuparsi di faccende domestiche e ad accudire animali. La sua storica mise nera, che lasciava scoperte gambe e spalle fu sostituita da abiti molto più castigati. Betty Boop, il primo personaggio dell’animazione ad essere divenuto un sex symbol, dovette abbandonare gli schermi nel 1939.

La trasformazione di Betty Boop

Sarebbe difficile comprendere gli elementi linguistici del cinema classico senza tenere a mente il sistema, appena descritto, entro il quale questi film furono prodotti. Prima che opera artistica, ogni film è considerato prodotto industriale, pensato e realizzato per incontrare il favore del pubblico. Se nel tempo si è andata affermando la figura del regista come autore del film, nella Hollywood di quegli anni egli è soltanto un professionista il cui lavoro inizia e termina con le riprese del film. Deve rinunciare alla ricerca di un proprio stile personale, per adottare un linguaggio più convenzionale che si adatti al modello del genere e agli standard della produzione.

Una scena del film King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack.

Se il pubblico tanto più apprezza un film quanto più gli risulta comprensibile la narrazione, allora ogni sforzo deve essere compiuto verso la più chiara esposizione narrativa. Sul piano della regia si tende ad evitare la profondità di campo in quanto rende poco pratica la lettura della scena da parte dello spettatore. La cinepresa assume punti di vista molto naturali, come può essere quello dei personaggi, si preferiscono perciò gli obiettivi 50mm, che forniscono un’immagine più naturale, piuttosto che i grandangoli che distorcono o i teleobiettivi che appiattiscono. I movimenti di camera sono sempre calcolati con estrema precisione.

Ogni elemento con cui si costruisce la scena deve essere pensato e mostrato in modo che lo spettatore possa sempre individuarne con precisione gli elementi più importanti, distinguere tra protagonisti e personaggi secondari, tra scene madri e scene di passaggio. Lo spettatore deve poter osservare la scena dal miglior punto di vista possibile, tutto ciò che può distrarlo ( tempi morti, abbellimenti estetici, sperimentazioni linguistiche) è rimosso. Ogni scena deve essere utile all’avanzamento del racconto e durare solo quanto basta per passare alla successiva, in modo da trascinare la curiosità dello spettatore verso il finale.

Dal film King Kong (1933). Risulta evidente l’utilizzo della retroproiezione per la realizzazione di questa scena.

Ai fini della drammatizzazione il confine tra bene e male, tra buoni e cattivi, deve essere reso in maniera univoca e facilmente intellegibile. Le sceneggiature, dette di ferro, perché non modificabili o alterabili da parte del regista, presentano una struttura modellata sulla regola dei tre atti. Questo metodo di organizzazione della sceneggiatura permette un’esposizione narrativa limpida e drammaticamente efficace. Nel primo atto vengono presentati i protagonisti, i loro antagonisti e i personaggi secondari, nonché i fattori che porteranno allo scatenarsi del conflitto di cui ci si occuperà nel secondo atto, e che in genere termina con la momentanea sconfitta del protagonista. Nel terzo atto il conflitto troverà una sua definitiva risoluzione.

Il lieto finale del film King Kong

Il conflitto, nel cinema classico, sarà sempre quello tra la norma, intesa come l’insieme di regole, valori, comportamenti sociali condivisi, e la sua trasgressione. Al termine di ogni storia il protagonista avrà due possibilità: ristabilire l’ordine come previsto dalla norma, oppure soccomberle ( come spesso accade nei film di gangster ). Il messaggio morale di questi film è sempre lo stesso: uniformarsi alla norma è bene, trasgredirla è male. Lo standard linguistico così elaborato crea un modello suscettibile di continue ripetizioni e variazioni su cui si basa lo sviluppo e la codificazione dei generi cinematografici ( in estremo si potrebbe affermare che il cinema classico sia esso stesso un genere).

"Locandina del film King Kong"

Locandina del film King Kong

Il film King Kong (1933) | ►| di Merian Cooper ed Ernest Schoedsack è tra le opere più rappresentative di questo periodo.

Il conflitto tra norma e trasgressione si ricrea anche all’interno della logica del genere, tra linguaggio convenzionale e linguaggio di genere, tra stile del regista e linea di produzione. I marziani non esistono, ma in un film di fantascienza saremmo tutti pronti ad accettarne, almeno per la durata del film, la loro esistenza. Due innamorati che volessero dichiararsi il loro amore normalmente non si mettono a ballare e cantare nel bel mezzo della strada come invece accade sistematicamente in un musical. I canoni figurativi e tematici del genere costituiscono una trasgressione alla normalità. Lo spettatore sa bene come il film andrà a finire, il suo piacere nasce proprio dalla possibilità di trasgredire temporaneamente e fittiziamente dalla norma, ben sapendo che alla fine l’ordine morale verrà ricostruito. Tanto più il regista lo porterà a trasgredire, tanto maggiore sarà il suo piacere nel ritornare al punto di partenza. Il regista stesso, se può in qualche caso permettersi di trasgredire alle norme imposte dalla produzione, è proprio all’interno dei codici del genere. La norma in qualche modo trionfa sempre, ma è la trasgressione ad interessare ed affascinare lo spettatore.

Locandina del film Scarface – Lo sfregiato (1932) di Howard Hawks e da Richard Rosson

Nell’insieme, l’obiettivo a cui mirano queste convenzioni stilistiche è restituire allo spettatore un’impressione di realtà. Il realismo del linguaggio classico è, però, un realismo di forma non di sostanza. Nella scelta di storie così altamente drammatizzate, spesso al di fuori della realtà, nei tagli di montaggio che portano passo passo l’attenzione dello spettatore a focalizzarsi su questo o quel particolare, come anche il punto di vista onnisciente assunto dallo spettatore,  l’impressione di realtà che questo cinema restituisce consiste principalmente nel togliere dal racconto cinematografico qualsiasi elemento che possa svelare l’artificio della messa in scena oltre che nella perfetta fluidità narrativa. Lo spettatore deve dimenticare di star vedendo un film. Orson Welles con il suo Quarto Potere (1941) verrà a contraddire e a rimettere in gioco tutti questi elementi che compongono lo stile narrativo classico.

Una scena del film Avventurieri dell’aria (1939) di Howard Hawks con Cary Grant e Jean Arthur.

Frank Capra, Victor Fleming, John Ford, Howard Hawks, Alfred Hitchcock, Ernst Lubitsch, Josef Von Sternberg, King Vidor, sono i maggiori registi di questo periodo. La visione e l’analisi dei loro opere resta indispensabile per comprendere i fondamentali del linguaggio cinematografico.

Riferimenti bibliografici e sitografia

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Lucilla Albano, Lo studio system: declino e asservimento (1929 – 1949), in Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema , Marsilio Editori, Venezia 1999.

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Edoardo Bruno, Sir Alfred Hitchcock, in www.treccani.it

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Gaia Marotta,King Vidor, in www.treccani.it

Alessandro Cappabianca, Josef von Sternberg, in www.treccani.it


Un commento

  1. conducted Marzo 29, 2018 at 6:08 pm - Reply

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