04.5 Hollywood negli anni Venti

Gli anni Venti negli Stati Uniti furono un periodo di grande benessere economico, furono anche gli anni dell’emancipazione femminile, del proibizionismo e di rinnovati odi razziali. Wall Street, divenuta il polo degli affari mondiali, investiva copiosi capitali nell’industria cinematografica. I budget messi a disposizione per le produzioni dei film si moltiplicano in maniera esponenziale rispetto a quelli degli anni Dieci. Se nel decennio precedente l’industria cinematografica si era andata consolidando, durante questi anni essa si trasforma in un sofisticato sistema di istituzioni. Le “Tre Grandi”: la Paramount-Publix, la MGM, e la First National, insieme alle “Cinque Piccole”: la Universal, la Fox, Producers Distributing Corporation, Film Booking Office e Warner Bros., creano una situazione di oligopolio all’interno del mercato americano. Si tratta di società a concentrazione verticale, che si vanno dotando di sempre più ampi circuiti di sale cinematografiche. Potendo contare su una distribuzione sicura per i propri film, questi produttori andavano investendovi capitali sempre maggiori e con maggiore tranquillità. Fu per opporsi a questo sistema in cui i grandi produttori la facevano da padroni che nel 1919 David Griffith, Charlie Chaplin, Mary Pickford e Douglas Fairbanks fondarono la United Artists Corporation, con la quale questi quattro divi intendevano sia distribuire propri film che favorire la produzione e lo sviluppo di un cinema indipendente, meno commerciale e di più alto interesse artistico. Più che rappresentare un’alternativa al sistema, essa finì per integrarvisi pur continuando, lungo tutto il decennio, alla promozione di molti e notevoli film.

I fondatori della United Artists Corporation. Da sinistra a destra: Douglas Fairbanks, Mary Pickford, Charlie Chaplin, David Griffith.

Se gli anni Venti in Europa, furono anni di sperimentazioni ed avanguardie artistiche, negli Stati Uniti, si assiste ad un progressivo perfezionamento dei dispositivi tecnici. Nei teatri di posa si arriva ad escludere totalmente la luce solare. Le parti della scena situate sullo sfondo vengono illuminate con luci di riempimento, mentre le figure principali sono sottolineate dal controluce che illumina da dietro e da sopra il soggetto della ripresa, mentre dal lato opposto alla luce principale, una luce più debole serve ad attenuare i contrasti. A questo nuovo uso dell’illuminazione si aggiunge il sempre più frequente ricorso a filtri ottici e un sempre più perfetto uso del montaggio. La pellicola pancromatica, capace di impressionare dettagliatamente l’intera scala dei grigi, sostituisce totalmente l’uso della pellicola ortocromatica che restituiva una fotografia più contrastata e meno leggibile.

Grazie alla maggiore disponibilità di capitali, il genere epico storico diventa popolare.  In questo periodo che si producono film come I quattro cavalieri dell’apocalisse (1921) o Ben-Hur (1925). Parallelamente i generi minori, relegati finora a produzioni di cortometraggio, vengono a nobilitarsi. Si tratta del western, del comico, dei film di gangster e dell’horror, introdotto negli Stati Uniti dal Dottor Caligari, ma anche del documentario, finora relegato ai sottogeneri delle attualità o dei racconti di viaggio. Tra il 1920 e il 1922 Robert Flaherty realizza il primo lungometraggio documentario della storia: Nanuk l’eschimese (1922).

L’eschimese Nanuk nel film documentario di Robert J. Flaherty Nanouk of the North (1922)

Quest’ opera di Flaherty, fu il primo film del genere ad ottenere un successo di pubblico paragonabile a quello di un film di fiction. Per dirla con le parole di Roberto Nepoti: “Se non la data di nascita, Nanook rappresentò per il documentario il riconoscimento ufficiale di una modalità del fare-cinema e il conferimento di un valore estetico.” (1)Roberto Nepoti, Storia del documentario, PATRON EDITORE, Bologna 1988

Il britannico Chaplin e il francese Maurice Tourneur erano stati finora i soli europei a lavorare stabilmente nell’industria americana, ma ora i produttori si lanciano all’ingaggio dei maggiori registi europei e acquistano i diritti sulle principali opere letterarie del vecchio continente. Puntano così al rinnovamento dei contenuti e dello stile dei loro film. Molte opere di questo periodo risultano, infatti uno fecondo connubio tra la sensibilità europea e l’efficace sistema produttivo di Hollywood.

Lubitsch, Lang, Murnau, lo sceneggiatore Carl Mayer e molti altri europei arrivano a lavorare ad Hollywood. Murnau produrrà in America Aurora (1927), un film destinato ad influenzare molti registi del tempo, una pietra miliare nella storia del cinema. Aurora fu inoltre uno dei primi film, prodotti da una Fox lanciata nella corsa al sonoro, ad essere distribuito con una colonna sonora sincronizzata alle immagini. Sceneggiato da Carl Mayer, Aurora narra la vicenda di un pescatore che , sedotto da una turista cittadina, tenta di sbarazzarsi della moglie annegandola, ma fallisce. La donna fugge in città, il pescatore la insegue roso dai rimorsi. Qui la coppia si riconcilierà ma, durante il rientro in barca saranno sorpresi da una tempesta e la giovane moglie rischierà di morire. Tutto si placherà alle prime luci dell’alba.

In questa Hollywood poco spazio era lasciato alle ambizioni artistiche ed autoriali dei registi. Griffith era stato il primo a tentare la strada della produzione indipendente per sottrarsi al controllo dei produttori e alle imposizioni del divismo. Come Griffith altri registi mostrarono insofferenza per la rigidità di un sistema che soffocava la propria libertà espressiva. Marshall Neilan, ad esempio, preferì girare film che avessero bambini come protagonisti, potendo così lavorare sulla recitazione come non avrebbe potuto permettersi con una grande star.

Più ribelle fu invece Maurice Tourneur che in ultimo decise di tornare in Europa. Altre figure come Von Stroheim, Rex Ingram, Von Sternberg, forti dei primi successi commerciali, vollero sostituire al divismo degli attori quello del regista, si cimentarono in produzioni anche titaniche, avendo sempre una maniacale cura per i particolari, e sempre tentando di imporre il loro prestigio personale sugli attori. Realizzarono film di grande valore stilistico, ma anche clamorosi fiaschi commerciali.

Il caso più esemplare fu quello di Erich von Stroheim. Aveva cominciato a lavorare nel cinema come attore in parti secondarie, finché non esordì alla regia con il ben riuscito Mariti ciechi (1919). Per il suo successivo lavoro, Femmine Folli (1922), impegnò la produzione in un notevole dispendio di tempo e risorse finanziarie ripagate, però, dal grande successo riscosso dal film. Von Stroheim portava avanti l’idea di un cinema d’autore incurante di qualsiasi censura o compresso commerciale. Appoggiato dai suoi produttori, che in un primo momento sostennero la sua causa, poté iniziare la titanica lavorazione di Rapacità (1924) | ►|. È questo il film dove più estremizza la sua poetica in cui, attraverso un ricorso frequente alla profondità di campo, simbologie e metafore si trovano dissolte nel più crudo e dettagliato realismo.

Nella versione originale Rapacità si presentava nell’inconcepibile durata di sette ore mezza. Su pressione dei produttori, Von Stroheim dovette cedere a Rex Ingram l’incarico di rimontarlo ( i due registi erano legati da reciproca stima). Ingram arrivò ad una versione di circa tre ore, che dovrà subire ulteriori tagli da parte di montatori professionisti. La versione finale non fu mai accettata dal regista. La produzione di La regina Kelly (1928), storia di un’orfanella di origini aristocratiche che diviene proprietaria di un frequentato bordello, venne interrotta con il pretesto dell’avvento del sonoro e distribuito solo in Europa. Von Stroheim venne così estromesso dalla regia e poté continuare a lavorare solo come attore in film altrui. Celebre è la sua interpretazione del nobile gerarca nazista in La grande illusione (1937) di Jean Renoir suo erede, del resto, nell’uso della profondità di campo.

Altri registi, invece, come DeMille o King Vidor, riuscirono a trovare un giusto compromesso, preferendo non entrare in dissidio aperto con i produttori e magari assecondando un certo divismo che, in fin dei conti, favoriva il successo dei loro film. Cecil B. DeMille condivideva con Griffith l’idea dell’affermazione autoriale del regista, ma egli comprese che questa passava prima di tutto attraverso l’affermazione dei propri film. Egli ebbe sempre un ottimo rapporto con la sua casa di produzione la Jesse Lasky Feature Play Company, poi Paramount, che non gli negò mai i mezzi e le risorse di cui aveva bisogno. Nei primi anni venti DeMille produsse ottime commedie dal fascino piccante come Maschio e femmina (1919) o Perché cambiate moglie? (1920), che contribuirono ad accrescere non poco una certa torbida fama di Hollywood. Protagonista di questi film è sempre Gloria Swanson la cui stella cresceva parallelamente al successo con cui si imponevano i film di DeMille.

Fu per spegnere le polemiche suscitate da queste commedie erotiche che DeMille preferì dedicarsi a film di genere biblico come I Dieci Comandamenti (1923), in cui al mito biblico si contrappone la storia di un ragazzo dell’epoca moderna che si prefigge di infrangere tutti i comandamenti, o il Re dei Re ( 1927), il racconto delle principali vicende della vita di Gesù di Nazareth viste attraverso gli occhi di Maria Maddalena.

Immagine dal film The King of Kings (1927) di Cecil B. DeMille

King Vidor aveva provato a percorrere la strada dell’indipendenza fondando una propria casa di produzione, fallita la quale passò alla Metro Goldiwn Mayer con cui avrebbe lavorato per il resto della sua carriera. Nei primi anni venti diresse soprattutto melodrammi tratti da opere letterarie e caratterizzate da un’impostazione perlopiù teatrale. Grazie ai nuovi capitali investiti da Wall Street nell’industria filmica, King Vidor poté esprimersi nel suo primo vero capolavoro La grande parata (1925) un affresco corale ed antieroico sulla Prima Guerra Mondiale. Protagonista di questo film fu John Gilbert che dopo la prematura scomparsa di Rodolfo Valentino ne aveva raccolto l’eredità. La grande parata (The Big Parade) riscosse un notevole successo di critica ed anche di pubblico. Ciò permise a Vidor di acquisire maggior influenza all’interno della MGM.

Una scena del film The Big Parade di King Vidor (1925)

Il successivo The Crowd (La folla, 1928) è la storia di un individuo qualunque che crede di aver un destino speciale ma che, sconfitto dallo scontro con la grande metropoli, finirà per perdersi nella folla indistinta. La folla (The Crowd) rappresenta un’opera eccezionale rispetto alla coeva produzione Hollywoodiana per il realismo con cui descrive la vita quotidiana. Il tema dell’uomo comune soffocato dalle strutture economiche e sociali, come appare in film, è quello che riemergerà nei film più personali e voluti di Vidor come Hallelujah (1929), Street Scene (1931), Our Daily Bread (1934), tutte opere caratterizzate da un forte impatto umano e impegno sociale. Vidor seppe sempre alternare a questa sua produzione più autoriale, film girati su commissione e commercialmente più appetibili.

Il sistema, dunque, consentiva ai registi un certo spazio di libertà, purché questi lavorassero a film commercialmente validi. Nella Hollywood degli ultimi anni del muto, erano i registi che volavano più basso a fare più strada, registi che sfruttavano i potenti mezzi dell’industria, senza grandi pretese autoriali, ma comunque con la volontà di realizzare prodotti validi e ben fatti, il più delle volte preferendo perfezionare il loro stile in rapporto a questo o quel genere. La produzione di genere diventerà sempre più importante con la crescita e l’imporsi di questo sistema industriale, dove alla crescente domanda dovrà accompagnarsi un’altrettanta grande offerta. I generi epico e storico, il western, i gangster-movie, gli horror, nati in questo periodo troveranno un loro più ampio sviluppo con l’introduzione del sonoro. Fa eccezione il genere comico, tra i più popolari negli anni Venti, e per il quale l’avvento del sonoro produrrà una vera e propria frattura stilistica tra i film del periodo muto e quelli successivi.

Riferimenti bibliografici e sitografia

D.Brodwell e K.Thompson, L’ultima stagione del muto ad Hollywood 1920-1928, in Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945, Editrice Il Castoro, Milano 1998.

Leonardo Gandini, Il regista nel cinema muto americano, in La regia cinematografica. Storia e profili critici, Carocci Editore, Roma 1998.

Sandro Bernardi, Stroheim la profondità di campo e le metafore , in L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio , Marsilio Editori, Venezia 2007.

Lucilla Albano, Affermazione e indipendenza (1914 – 1928), in Il secolo della regia. La figura e il ruolo del regista nel cinema , Marsilio Editori, Venezia 1999.

Roberto Nepoti, Robert Flaherty , in Storia del documentario , PATRON EDITORE, Bologna 1988.

Rick Altman, Film/Genre , BFI, Londra 1999.

Roberto Campanari, Generi cinematografici, in www.treccani.it

Lorenzo Esposito, Cecil B. DeMille, in www.treccani.it

Gaia Marotta, King Vidor, in www.treccani.it .

Grazia Paganelli, Erich Von Stroheim,i n www.treccani.it

Giulia Carluccio, Rex Ingram, in www.treccani.it

Alessandro Cappabianca, Josef von Sternberg, in www.treccani.it

Note

Note
1 Roberto Nepoti, Storia del documentario, PATRON EDITORE, Bologna 1988

2 Commenti

  1. Enrico O. Febbraio 3, 2018 at 7:32 pm - Reply

    Congratulazioni per il sito e il canale YouTube! Sono molto incuriosito da The Crowd ma non riesco a trovarlo da nessuna parte, hai qualche suggerimento su dove cercare?

  2. Piergiorgio Mariniello Febbraio 3, 2018 at 8:37 pm - Reply

    Purtroppo non è disponibile in streaming gratuito sul web. Puoi cercare in quelche videoteca o provare ad acquistarne una copia in DVD

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