Il genere comico si era andato fortemente sviluppato negli anni dieci sotto la forma dello slapstick. Esso restò fino agli anni Venti relegato a produzioni di cortometraggio ma, vista la sua grande popolarità ed il positivo riscontro economico, in questo decennio iniziano ad essere prodotti i primi lungometraggi comici, mentre la produzione di corti andrà via via scomparendo. Più la durata dei film andava allungandosi, più complesse ed articolate si facevano le sceneggiature, i personaggi andavano assumendo caratteristiche fisiche e psicologiche sempre più marcate, la farsa cedeva il passo alla commedia. Nonostante i maggiori autori del genere continuassero ad inserire nei loro film numerose gag tipiche dello slapstick, talvolta anche a discapito della linearità del racconto, la formula era in ogni caso vincente come dimostra la popolarità che il genere detenne lungo tutto il decennio.
Charlie Chaplin fu senz’altro l’autore più conosciuto del genere. Durante gli anni della guerra, aveva continuato a produrre cortometraggi di gran valore con la Essanay e la Mutual Film. La sua fama era ormai internazionale quando nel 1919 si unì alla United Artists. Sarà con questa casa che Chaplin distribuirà tutti i suoi lungometraggi. Se molte pagine sono state scritte sul personaggio di Charlot, meno numerose sono state le analisi condotte sugli aspetti tecnici e linguistici del suo cinema, sul Chaplin come regista. Egli scriveva, dirigeva, interpretava, montava, produceva i suoi film e ne scriveva le musiche. Era l’uomo-cinema eppure lo stile della sua regia è, sotto certi aspetti, il meno cinematografico di tutti. Ad esempio, egli colloca la cinepresa in modo da riprendere la scena come se gli attori agissero su un palcoscenico teatrale, la cinepresa non manifesta mai la sua presenza, non si sposta per seguire i personaggi. Chaplin usa sporadicamente i primi piani, poco frequenti sono i tagli di montaggio. Il suo cinema non mette al centro né la regia, né il montaggio, ma l’attore. Tutto sul set deve essere predisposto affinché la sua performance risulti intelligibile anche ad un bambino. Questo stile lineare ed asciutto, che Chaplin deriva dall’opera di Max Linder è, nonostante tutto, il frutto di un lavoro meticolosissimo e curato in ogni dettaglio. Chaplin arrivava a ripetere centinaia di volte una stessa scena finché non riusciva ad eseguirla alla perfezione.
Il monello del 1921, fu il suo primo lungometraggio e, a suo stesso dire, uno dei suoi film più riusciti. Chaplin vi interpreta il suo personaggio di sempre, stavolta alle prese con un trovatello che ha raccolto neonato per strada e di cui è divenuto un affettuoso padre adottivo. Nei titoli di testa leggiamo: “A picture with a smile – and perhaps, a tear”, una frase che ben sintetizza la poetica chapliniana, che trova nell’unione tra il comico e il drammatico il suo tratto più distintivo.
Nel film, Chaplin è un misero vetraio che vive di espedienti, il monello, interpretato da Jackie Coogan, è un ragazzino di cinque anni che lo “aiuta” nella attività scagliando sassi contro i vetri delle finestre. Alle esilaranti risate che scaturiscono dalle numerose gags, si mescola la profonda commozione suscitata dal grande amore che lega i due protagonisti. Un amore anarchico e spontaneo, oltre tutte quelle regole che severi poliziotti e impettite dame di carità tentano di ristabilire. Il lieto fine è soltanto apparente: la vera madre, ormai attrice acclamata, ritroverà il figlio che era stata costretta ad abbandonare, l’ultima scena del film ci mostra il vetraio che entra insieme al bimbo nella villa della sua vera madre, ma la porta che si richiude ci impedisce di vedere il resto. La fine che si lascia ipotizzare non può che essere quella intravista nella sequenza del sogno con l’angelo dove Charlot rimane da solo. Resta cioè il vagabondo, l’uomo che cerca di essere accettato, le cui ribellioni contro il mondo corrotto dalla spasmodica ricerca di denaro e potere, che puntualmente lo espelle, sono destinate al fallimento. Chaplin curò personalmente ogni fase della lavorazione de Il monello, dalla sceneggiatura al montaggio finale, applicandovisi con una meticolosità perfino superiore agli standard per i quali era già noto. Il suo stile raggiunge qui la sua perfezione e più completa maturità.
Dopo il cortometraggio Il pellegrino (1923), Chaplin tornò ancora alla regia di un lungometraggio con La febbre dell’oro (1925). Il film contiene quella celeberrima scena in cui vediamo il poco fortunato cercatore d’oro, sconvolto dalla fame, cucinarsi e mangiare una scarpa. Non è lo strano cibo con cui Charlot si sfama che ci fa ridere, ma l’estrema dignità ed eleganza con cui egli esegue ogni gesto dalla preparazione della pietanza al suo consumo: controlla il tempo di cottura, apparecchia la tavola in maniera impeccabile, fa uso delle posate proprio come prescritto dal galateo. Egli si sforza di mantenere la sua dignità anche innanzi al più atavico e terribile dei bisogni umani: la fame. Noi ridiamo, ma c’è del tragico che si insinua in questa scena apparentemente così comica.
La stessa commistione di tragico e comico la troviamo nell’ultimo lungometraggio di Chaplin realizzato e nel periodo del muto: Il circo (1928). Qui il vagabondo sarà preso a lavorare in un circo dove si innamorerà di una trapezista. Questa è la figlia del padrone che Charlot con ogni mezzo, suscitandoci le più grasse risate, tenterà di difendere dalle angherie del padre. Ma alla fine, se l’amore trionfa, non è per il vagabondo. Egli rinuncerà alla donna che ama affidandola al giovane equilibrista Rex. Nell’ultima scena del film, Charlot resta seduto al centro della rotonda lasciata vuota dal circo. Per questo film Chaplin ricevette il Premio Oscar alla carriera, nella prima edizione degli stessi. In un articolo apparso sulla rivista American Magazine 86, intitolato What People Laugh At e pubblicato nel novembre del 1986 , Charlie Chaplin prova a spiegare, e forse a spiegarsi, i segreti della sua comicità.
A portare Chaplin al suo debutto cinematografico era stato, come abbia visto, Mack Sennett. Oltre che di Chaplin, Sennett fu lo scopritore di tanti altri eccezionali talenti come Mabel Normand, Roscoe Fatty Arbuckle, Buster Keaton… ben pochi di loro riuscì, però, a trattenere presso di sé, la maggior parte di questi attori se ne andarono per la loro strada una volta raggiunto il successo. Solo Fatty restò per diversi anni alla Keystone. Con questi, Sennett, continuò a replicare ancora per lungo tempo la formula dello slapstick. Fatty restava il gigante buono sempre in attesa dell’ennesima torta in faccia, ma non per questo i suoi film avevano meno successo. In ogni caso Sennett ebbe la buona idea di affiancargli una spalla agile e dinamica come il giovane e promettente Keaton. Questa coppia, tutta incentrata sul contrasto fisico tra il grasso, eccessivo e ingenuo Fatty, e il piccolo e serio Buster, girerà insieme una quindicina di eccellenti cortometraggi.
Se Chaplin lavorava per rendere invisibile la cinepresa, Keaton mette in scena il cinema stesso. Elementi metalinguistici compaiono in molti suoi film ed in particolare in The Playhouse |►|, Sherlock Jr. |►|o in The Cameraman. Legatosi mani e piedi alla MGM, venne messo da parte con l’avvento del sonoro, seguendo il destino di molti grandi comici del tempo la cui comicità era essenzialmente basata su gag fisiche.
Altra stella del cinema comico, lanciata al successo da Mack Sennett, fu quella di Harry Langdon, acclamato attore di vaudeville, che all’apice della sua carriera scelse di provarsi nella nuova arte. Dopo aver preso parte come attore in un certo numero di cortometraggi, prodotti da Sol Lesser, fu notato da Mack Sennett che lo volle alla Keystone. Il decollo della carriera di Langdon si ebbe con l’arrivo alla Keystone del regista Harry Edwards che firmerà tutti i successivi lavori di Langdon e lo accompagnerà nel passaggio alla First National con la quale produrrà il suo primo lungometraggio.
Quello di Langdon è un personaggio davvero singolare, distante da Charlot di cui pur condivide una certa vena malinconica, come da Keaton di cui pure ha in comune una certa impassibilità di fronte all’assurdo e alla catastrofe. Grazie ai tratti dolci del suo volto e ai suoi occhi chiari e particolarmente espressivi, Langdon incarna un eterno fanciullo dalla timidezza e ingenuità disarmanti, tenero e romantico, candido e innocente, indifeso contro la malizia del mondo circostante. Basti pensare alla scena di Tramp, Tramp, Tramp ( 1926) nel quale il giovane protagonista, perdutamente innamorato della ragazza dei manifesti, la incontra davvero in carne ed ossa. Al fanciullone Langdon sono necessari diversi minuti ed infinite esitazioni prima di essere convinto a sedersi accanto a lei. Questo film, molto ben riuscito, mostra bene come negli anni Venti la farsa si stia trasformando in commedia.
Hal Roach fu, durante tutto il periodo del muto, il maggior rivale di Mack Sennett nella produzione di film comici. Sfruttando una cospicua eredità, questi aveva fondato la sua casa di produzione, la Rollin, assieme Dan Linthicum ed Harold Lloyd con il quale creò il personaggio di Lonesome Luke. Anche se questo personaggio ricordava un pò troppo da vicino quello del vagabondo di Chaplin, ebbe un discreto successo. Ma la vera svolta per Hal Roach arrivò nel 1917, quando Lloyd cambiò il suo personaggio in quello del giovane ottimista, abile nelle acrobazie e nel combinare guai. A Sailor -Made Man (1921) fu il primo film di lungometraggio interpretato da Harold Lloyd e certamente uno dei suoi film più riusciti. In particolare, nella sequenza del salvataggio, Lloyd dà vita ad una serie pirotecnica di acrobazie tra le più lunghe e complesse mai realizzate a Hollywood.
I film di Harold Lloyd rappresentarono per Roach la maggior fonte di guadagno, almeno fino al 1923, quando Lloyd decise di intraprendere la strada dell’indipendenza producendo da sé i suoi film successivi che continuarono a riscuotere successi fino all’avvento del sonoro. Preferisco l’ascensore (1923) è probabilmente il film più celebre tra quelli realizzati dalla coppia formata da Hal Roach ed Harold Lloyd. Il giovane Harold trova impiego in un grande magazzino, per via di una serie di disavventure si troverà a dover compiere la scalata di un grattacielo, una trovata pubblicitaria della direzione. La scene in cui Harold resta appeso alle lancette dell’orologio è forse una delle immagini più celebri di tutta la storia del cinema.
L’avvento del sonoro pose fine a quello che era stato il genere più amato del decennio. La comicità si spostò sui dialoghi, su storie sempre più raffinate dove la risata fine a se stessa, le acrobazie comiche, le torte in faccia, ultimo retaggio del cinema delle attrazioni, non avevano più spazio. La narrazione diveniva l’elemento fondante del nuovo cinema. Molti dei più grandi attori comici si ritrovarono senza lavoro, incapaci di adattarsi al cambiamento imposto dalla rivoluzione del sonoro. Tra gli autori di cui abbiamo parlato il solo Chaplin riuscì, a suo modo, a sopravvivere alla rivoluzione sonora come vedremo nel capitolo 05.3.
Riferimenti bibliografici e sitografia
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