Isolata dalla comunità internazionale, con un governo non ancora padrone della situazione e con il mercato invaso da film stranieri, la cinematografia sovietica non disponeva neanche di scorte sufficienti di pellicola per girare film. Kulešov ed i suoi allievi furono costretti ad ingegnarsi: si esercitavano nella recitazione costruendo piccoli teatrini che simulassero il primo piano, elaboravano teorie e discutevano sulla nuova arte montando e rimontando vecchi spezzoni di pellicola girata in precedenza. Kulešov elaborò alcuni importanti esperimenti con i quali dimostrava che la reazione dello spettatore dipendeva più dal montaggio che dalla singola inquadratura.
In un celebre esperimento, realizzato probabilmente rimontando materiale di archivio, Kulešov mostrava il volto del celebre attore Ivan Mozžuchin, con un’espressione neutra, a questa scena alternava inquadrature di cose e persone diverse come un piatto di minestra, un cadavere, una bambina… dimostrando che lo spettatore leggeva, nell’immutata espressione dell’attore, ora fame, ora orrore, ora gioia. In un altro esperimento montò insieme una serie di primi piani del volto di quattro diverse donne: lo spettatore credeva si trattasse di un’unica attrice. Questo è ciò che verrà definito come effetto Kulešov. Un esempio pratico di quest’ultimo esperimento ce lo offre Pudovkin nella seguente scena, tratta dal suo cortometraggio La febbre degli scacchi (1925), dove per un attimo ci fa credere che stiamo assistendo ad una partita tra due giocatori | ►|.
Con gli allievi della sua scuola, Lev Kulešov realizzerà, nel 1924, il film Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi, commedia che ironizza sulle false concezioni che gli occidentali avevano della Russia. Il film che attraversa, parodiandoli, tutti i principali generi del cinema americano è tra i primi e più brillanti esempi di cinema sul cinema.
“L’essenza del cinema sta nella composizione, nella successione dei pezzi girati. Per organizzare l’impressione, conta non tanto ciò che è stato girato in un dato pezzo, ma come un pezzo succede all’altro nel film, come sono costruiti. Il principio organico del cinema non va cercato entro i limiti del pezzo girato, ma nella successione di tali pezzi.” (1)Lev Kulesov, Kino-for, 1922; citato in Leonardo Gandini, La regia cinematografica. Storia e profili critici, CAROCCI ED., Roma 1998.
Così si esprimeva Kulešov in un articolo del 1922. Pur elaborando ciascuno le proprie teorie tutti questi registi, Pudovkin, Ejzenštein, Vertov e il gruppo dei FEKS (Fabbrica dell’Attore Eccentrico), furono concordi nel riconoscere il montaggio come l’elemento specifico del cinema e gli attribuirono un’importanza maggiore rispetto alle altri fasi di lavorazione del film. A differenza di quanto avveniva tra gli impressionisti, il montaggio non serviva loro per esprimere la soggettività dei personaggi (del resto un tratto comune a questi registi fu quello di non servirsi dei personaggi come individui, ma piuttosto come rappresentanti di questa o quella classe sociale), i sovietici se ne servivano soprattutto per esporre ed illustrare concetti teorici allo spettatore, vera arte era per essi quella utile ad istruire e comprendere. Questi autori esprimevano una volontà di rinnovamento rispetto alle forme cinematografiche tradizionali affidata al ruolo basilare e rivoluzionario del montaggio.
Tra le posizioni più estreme e radicali troviamo quelle di Vertov ed Ejzenštein. Dziga Vertov produsse soprattutto documentari. Convinto costruttivista, egli intendeva il montaggio come principio generatore ed organizzatore dell’opera filmica. Diversamente da Pudovkin o Ejzenštein, Vertov non si serve del montaggio per costruire sensi metaforici. Raccogliendo immagini con il suo cineocchio, Vertov le montava secondo precisi calcoli aritmetici e chiare geometrie, il montaggio era il ritmo stesso del film, nell’accostare un’inquadratura all’altra gli oggetti ripresi acquisivano nuovi significati. Stabilitosi a Mosca, Vertov fondò nel 1922 il gruppo dei Kinoki e diresse negli anni successi il cinegiornale mensile di attualità Kinopravda (Cine-verità). Nel 1924 si fece promotore del manifesto del Kinoglaz (Cineocchio) nel quale esponeva le sue avanguardistiche teorie cinematografiche.
“Io sono il cineocchio. Io sono un occhio meccanico. Io sono una macchina che vi mostrerà il mondo come solo una macchina può fare. D’ora in poi vi libererò dall’umana immobilità. Io sono in perpetuo movimento. Io posso avvicinarmi alle cose e ritirarmi da esse, scivolare sotto di loro, entrarvi dentro. Io posso muovermi sul muso di un cavallo in corsa, fendere le folle e a gran velocità, guidare i soldati in battaglia, decollare come un aeroplano… il cineocchio… include tutti i metodi, senza alcuna eccezione, che permettono di raggiungere e registrare la realtà in movimento.” (2)I kinoki, un rivolgimento in Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, a cura di P. Montani, Mazzotta, Milano 1975.
Vertov riteneva il cinema di finzione fumo che il potere borghese gettava negli occhi del popolo. Per compiere pienamente la sua funzione sociale, il cinema doveva documentare la realtà, documentarla attraverso l’occhio meccanico e perfettibile della cinepresa, un occhio meno fallace di quello umano. Solo la cinepresa, il cineocchio, poteva registrare e riprodurre la realtà così com’era, mostrandone i significati e le contraddizioni più recondite. Vertov metteva in pratica le sue teorie realizzando documentari avanguardistici destinati ad influenzare molti altri registi anche al di fuori dell’URSS, come nel caso di La sesta parte del mondo (1926), documentario che, trascurando cifre, dati e riferimenti statistici, illustra le attività produttive nelle varie regioni dell’Unione Sovietica, mettendo a confronto lo stile di vita socialista con il resto del mondo. A quest’opera si ispirò il regista tedesco Walter Ruttmann e diede vita ad una sorta di nuovo genere di documentario sulle città.
Ma è L’uomo con la macchina da presa l’opera attraverso la quale Vertov materializza nella maniera più completa le sue teorie. Il film documenta la giornata di un cineoperatore al lavoro tra le strade di Odessa. Oggetto dell’indagine del cineocchio non è solo la realtà circostante, ma il cineasta stesso. Nel finale del film, il cineocchio comincerà a muoversi da solo sul treppiedi per andare ad inquadrare la facciata del Teatro Bolshoi che collassa su stessa, a significare la rottura con la tradizione.
Vertov potè realizzare nel 1930 il suo primo film sonoro: Sinfonia del Donbass un altro documentario epico-lirico sull’attività delle fabbriche e delle miniere nella regione ucraina del Donbass. Vertov fece un uso originale del sonoro, mescolando i rumori delle macchine registrati in presa diretta con musiche e canti popolari; dirà a proposito Charlie Chaplin:
“Non avrei mai creduto che fosse possibile assemblare rumori meccanici per creare tale bellezza. È una delle migliori sinfonie che abbia mai ascoltato. Vertov è un vero musicista.“
Il suo ultimo lavoro importante fu il celebrativo Tre canti su Lenin | ►| (1934): inviso al regime di Stalin, Vertov fu progressivamente messo in disparte pur non smettendo mai di lavorare. Si spense nel 1954 a causa di un cancro.
Sergej Ejzenštein, in un primo momento, intese il montaggio come l’essenza stessa del cinema, la sua specificità rispetto alle altri arti più tardi, però, estese le sue teorie sul montaggio anche a queste finendo con il definirlo l’elemento proprio di qualsiasi creazione artistica, presente nella poesia come nella pittura. Negli scritti redatti nel ’29 egli chiarisce la sua idea di montaggio, inteso secondo la dialettica marxista, come scontro di due elementi antitetici dalla cui sintesi sarebbe scaturito un terzo concetto che avrebbe superato entrambi è ciò che definisce montaggio delle attrazioni:
“L’attrazione è per noi, qualsiasi fatto presentato (azione, oggetto, fenomeno, combinazione consapevole etc.) noto e verificato, inteso come impulso che esercita un determinato effetto sull’attenzione e l’emozione dello spettatore, e che connesso con altri fatti. è capace di orientare l’emozione dello spettatore in una determinata direzione indicata al fine che lo spettacolo si propone” (3)Sergej M. Ejzenstejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986.
L’esempio più chiaro è quello della sequenza finale di Sciopero! (1925), che segnò il suo esordio alla regia. In questa sequenza, alle immagini degli operai scioperanti che cadono sotto gli spari della milizia, Ejzenštein alterna scene che mostrano dei macellai uccidere un bue.
Queste scene deel macello non fann parte del racconto del film. Mostrando alternativamente queste due scene Ejzenštein intende dire: gli operai vengono uccisi, il bue viene ucciso, dallo scontro/incontro di questi due elementi si può quindi ricavare il seguente concetto: gli operai vengono uccisi come fossero degli animali. Qualcosa di simile avviene anche nella sequenza che ci mostra l’inizio dello sciopero: vediamo gli ingranaggi funzionare regolarmente, poi tre operai che incrociano le braccia e gli ingranaggi fermarsi.
Ejzenštein non ci mostra direttamente gli operai che fermano le macchine, ma esprime metaforicamente il concetto che, senza il lavoro dell’uomo, le macchine non possono funzionare e quindi la fabbrica non può produrre. Questo tipo di montaggio verrà definito montaggio espressivo, un montaggio che non ha più solo il compito di stabilire i nessi narrativi tra le inquadrature, ma anche quello di esprimere sensi che si trovano al di là della semplice rappresentazione fenomenologica della realtà.
Nel successivo film, La corazzata Potëmkin (1925), possono essere rintracciati altri numerosi esempi di montaggio espressivo. Il gesto del marinaio che rompe il piatto in terra viene ripreso da dieci angolazioni diverse, ed Ejzenštejn monterà tutte e dieci le inquadrature in rapida successione. Ogni inquadratura viene a ripetere ciò che era stato mostrato nella precedente creando una sovrapposizione temporale del tutto contraria a quell’illusione di fluire continuo del tempo che era il fine del montaggio narrativo. Ejzenštejn si serve di questa tecnica, detta overlapping editing, per mettere in risalto il gesto che porta allo scoppio della rivoluzione.
Il processo opposto è il jump editing che si ottiene, invece, eliminando parti di un evento. Come al termine della celebre sequenza del massacro che si svolge sulla scalinata di Odessa: tre inquadrature ci mostrano frammentariamente un soldato nell’atto di picchiare qualcuno e subito dopo il volto sfigurato di una donna, noi spettatori siamo portati a ricostruire virtualmente l’accaduto. Nella stessa sequenza possiamo rintracciare anche esempi di un’altra strategia di montaggio basata su elementi grafici. Nella realtà storica, la violenta repressione delle forze dell’ordine avvenne di notte per strade secondarie, e non sull’imponente scalinata. Se Ejzenštejn scelse di ambientarla qui fu a causa della sua particolare forma: svariate inquadrature sono poste in contrasto tra loro dalle diagonali tracciate dagli scalini che le attraversano ora in un senso ora nell’altro. Tali contrasti aumentano la tensione drammatica della sequenza.
La convinta partecipazione di Ėjzenštejn al socialismo, si esprime anche a livello contenutistico. In Sciopero e in La corazzata Potëmkin, come anche nei successivi Ottobre (1928) e Il vecchio e il nuovo (o La linea generale) (1929) o nel documentario Que viva Mexico, non ci sono personaggi principali: protagonista non è neanche Lenin in Ottobre, film incentrato proprio la sua figura. I film di Ejzenštein sono opere corali dove si annulla qualsiasi gerarchia tra personaggi.
A seguito del suo viaggio in Messico, Ėjzenštejn cominciò ad essere sospettato dal regime stalinista. Tornerà alla regia soltanto nel 1938, nel frattempo si dedicherà all’elaborazione e alla stesura delle sue teorie sulla regia e, soprattutto, sul montaggio. L’opera critica di Ėjzenštejn segnerà la storia del cinema non meno delle le sue opere.
Un altro grande autore della scuola del montaggio sovietico fu Vsevolod Pudovkin che assunse posizioni meno estreme rispetto a quelle di Vertov ed Ėjzenštejn, ma non di minor valore. Egli riconosceva ancora al montaggio un ruolo centrale nell’elaborazione dell’opera filmica, identificandolo con lo stile stesso dell’autore. Non dimenticava, però, l’importanza della sceneggiatura, che redigeva meticolosamente secondo ritmi e cadenze ben precisi, né il ruolo fondamentale dell’attore. Il suo cinema, infatti, a differenza di quello dei suoi contemporanei intento a tracciare un’epica del popolo e della rivoluzione, si concentra sull’individuo e ridà spessore psicologico al personaggio. Tema centrale della sua trilogia rivoluzionaria composta da La madre (1926), La fine di San Pietroburgo (1927) |►| e Tempesta sull’Asia (1928) |►| è la lenta presa di coscienza politica da parte dell’individuo. Pudovkin si serve del montaggio per mostrare lo sviluppo emotivo del personaggio e la sua realtà interiore dentro la quale si riflette la Storia.
Con Sergej Ėjzenštejn e Grigorij Aleksandrov, Pudovkin fu firmatario della dichiarazione sul futuro del sonoro, documento nel quale i tre esponevano le loro teorie sull’uso del sonoro nel cinema. I successivi lavori di Pudovkin non ebbero però la stessa incisività e originalità dei precedenti: anch’egli, come i suoi contemporanei, dovette adeguarsi ad operare entro i limiti che il regime stalinista imponeva. L’avvento dello stalinismo pose fine a questa feconda fase del cinema del russo. Il regime, infatti, guardava con sospetto lo stile avanguardistico dei suoi autori ed impose loro il ritorno ad un più controllabile realismo.
L’esperienza della scuola del montaggio sovietico offrì un contributo notevolissimo all’evoluzione del linguaggio cinematografico anche per l’impatto delle opere critiche e teoriche dei suoi autori che continuano a stimolare la creatività di molti autori contemporanei.
Riferimenti bibliografici e sitografia
G. Sadoul, Premiers pas soviétiques (1918-1920) , in Histoire générale du cinéma, 4° vol., Le Cinéma devient un art (La Première Guerre Mondiale) 1909-1920, Denoël, Parigi 1947.
D.Bordwell e K.Thompson, Il cinema sovietico negli anni Venti, in Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945, Editrice Il Castoro, Milano 1998.
Leonardo Gandini, Il regista nel cinema muto sovietico, in La regia cinematografica. Storia e profili critici, Carocci Editore, Roma 1998.
Sandro Bernardi, Avanguardie russe, in L’avventura del cinematografo, Marsilio, Venezia 2007.
Sergej M. Ejzenstejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986.
Sergej M. Ejzenstejn, Stili di Regia , Marsilio, Venezia 1993.
Ejzenstejn, FEKS, Vertov. Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni Venti in URSS., a cura di Paolo Bertetto, Feltrinelli, 1975.
AA.VV., I formalisti russi, a cura di T. Todorov, Einaudi, Torino 1968.
Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, a cura di P. Montani, Mazzotta, Milano 1975.
Ornella Calvarese, Lev Vladimirovic Kulesov, in www.treccani.it.
Pietro Montani, Dziga Vertov, in www.treccani.it.
Ejzenstejn, in www.treccani.it.
Ornella Calvarese, Vsevolod Illarionovič Pudovkin, in www.treccani.it.
Giulia Zoppi, Il salto eccentrico della FEKS, in www.tysm.org.
Note
↑1 | Lev Kulesov, Kino-for, 1922; citato in Leonardo Gandini, La regia cinematografica. Storia e profili critici, CAROCCI ED., Roma 1998. |
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↑2 | I kinoki, un rivolgimento in Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, a cura di P. Montani, Mazzotta, Milano 1975. |
↑3 | Sergej M. Ejzenstejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986. |
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